Laboral
Remedios Zafra: “La precariedad en los trabajos creativos funciona como forma de domesticación”

Este artículo es mejor que los de Jorge Armesto que parece el guionista de " La casa de la pradera ".

Que manera tan rebuscada para evitar decir la realidad, el 99% de los artistas a nivel mundial nunca van a lograr nada simple y sencillamente porque no tienen el talento y/o no tienen el conocimiento para vivir de su actividades creativas el problema es que su ego no los deja ver "Pero como que a nadie le a gustado mi ensayo acerca de lo fugaz del pasto en los colores turqueza de siglos de cultura maya? Yo lo hice totalmente drogado en LSD y me parecio fabuloso"

Estoy de acuerdo frente a la observación de la autora. Sin embargo el hecho de que no sea propositiva mínimamente aportando para el cambio de perspectiva y la toma de conciencia, no me alienta a leer su obra, los análisis intelectuales tienen valor agregado al momento de confrontarse y proponer, no como una verdad absoluta sino como un aporte al problema que se manifiesta, como ella lo dice usar su imaginación es crear una propuesta. Porque así mismo puede quedar como parte de esa información que conocemos y que no sabemos qué hacer con ella. La intención de ahora es tejer sabiduría, conocimiento e información ya tenemos demasiado.

No me gustó la nota, con tintes de victimización y sentimiento antisistema.

Precariedad intelectual, s-pain s-así. Palabras huecas. Elites fofas para masa amorfas

Hay que seguír creando. No hay que desesperar... tanto talentosos/as que veo arrojar su hermoso talento a baules en el sótano de su corazón. Basta de eso! No lo arrojen! Arropenlo cada noche junto a ustedes.. abrazenlo junto a sus sueños y no desesperen.
... no se si nos ira mejor. Pero se que es necesario continuar y no dejarse ganar porque ellos quieren que lo hagamos, y no jajaha jamás! Mi alma vive y late por esto... jamás lo dejaré y hasta mi último aliento cuando diré los amo y ame cada segundo de mi vida donde sufrí y lati todo lo que significa ser artista en este largo y perdido mundo llamado Chile. Besos a todos

No soy artista, pero mi hija si lo es, y este magnífico ensayo de la profesora Zafra me aclara las preocupaciones que de mi hija recibo en relación a su trabajo.
Gracias

Brillante ensayo. Quiero compartir con ustedes que se han desclasificado informes de la CIA que revelan la intervención de la agencia en el ámbito cultural de México, fundando revistas y coopetando intelectuales, como Ramón Xirau y Juan Rulfo.

Excelente artículo y de gran extensión, porque aplica en varias ciudades en tiempo y espacio....gracias....!!!!

Muchas gracias por el interesante artículo. Tal vez os interese tambien esto: https://m.facebook.com/congresoprekariart/?ref=bookmarks

https://www.ehu.eus/es/web/congreso-prekariart

Remedios Zafra: “La precarietà nei lavori creativi funziona come forma di addomesticamento”

Un saggio con vocazione d’arringa, El entusiasmo, della professoressa Remedios Zafra per allertare dei malesseri che lamenta il lavoro creativo e chi vi si dedica.

C’è una frase nel nuovo libro di Remedios Zafra (Zuheros, Córdoba, 1973) che descrive con precisione un silenzio storico, attribuito al decoro, che lei vuole far saltare. Dice così: “In un qualche momento della nostra storia parlare di soldi quando uno scrive, dipinge, compone una canzone o crea è diventato di mal gusto”.

Ne El entusiasmo, Premio Anagrama di Saggio nel 2017, Zafra, scrittrice e professoressa di Arte, Studi visivi, Studi di genere e Cultura digitale nell’Università di Siviglia, si affaccia alle condizioni nelle quali attualmente si produce e gestisce la cultura, considerando che - ed è imprescindibile ricordarlo - “mai una creazione si fa isolata dal mondo materiale”.

Aggiunge così un altro strato al corpus che ha formulato in saggi precedenti - anche ne Los que miran (Fórcola Ediciones, 2016), una prima consigliata incursione nel campo del romanzo -, sempre inclinato all’osservazione di come il radicamento di internet stia influendo sulle nostre vite.

Non per prevedibile meno demolitrice, una delle conclusioni alle quali giunge il suo lavoro dovrebbe far saltare tutti gli allarmi giacché mette nero su bianco uno stato di cose insostenibile: il mondo culturale, riassume Zafra, “è mantenuto da collaboratori a tempo parziale, entusiasti tirocinanti e diverse figure per la gestione di reti”.

Perché è importante analizzare la precarietà nel lavoro creativo nell’era digitale e parlarne?
La precarietà è una delle forme più abituali che assume la disuguaglianza nel capitalismo ed è importante perché oggi caratterizza i modi predominanti di lavoro in un mondo connesso. È così abituale che tende a passare inosservata. E mi sembra che ciò accada per diverse ragioni, tra queste: la precarietà nel lavoro creativo si nasconde con alte dosi di motivazione e volontarismo; in alcune occasioni riceve una paga immateriale o simbolica che fa sentire i lavoratori d’aver ottenuto un beneficio - anche se solo un certificato o un maggior numero di seguaci (followers) -; rinforzano la tradizione per cui la creazione comporta una paga “diversa” - “che fortunato sono per dedicarmi a quello che mi piace” -.

Questa naturalizzazione delle forme di precarietà nell’era digitale si appoggia, tra l’altro, su vite online laddove dedichiamo sempre più tempo a gestire le nostre reti e “noi” nelle stesse. Noi stessi come gran prodotto creativo di questo tempo.

Perché bisogna parlarne?
Perché questa precarietà ci parla dell’epoca che viviamo e, quindi, di qualcosa che ci sta succedendo, in cui possiamo e, se ci importa qualcosa il sociale, dobbiamo intervenire. Mi sembra che scrivere su di essa, aiuti a pensarla, contribuisca a rompere la corda della sua “normalizzazione”, ma ci facilita anche una riflessione sulle nuove forme della conformazione di valori in un mondo in rete, la politica implicita in questa economia.

"Quando il sistema culturale si sostiene sulla precarietà e la competitività, i vincoli tra uguali corrono il rischio di fratturarsi."

Cosa la rende diversa dalle precarietà d’altri settori produttivi?
Penso che, prima di tutto, la motivazione implicita in ogni lavoro creativo. La vita culturale e creativa viene solitamente da pratiche in molti casi vocazionali che in un qualche momento ci orientano a una formazione guidata e, in altri, a transitare per determinati interessi con passione ed entusiasmo. C’è, quindi, una chiara aspettativa.

Un giovane che consegna cibo a domicilio può condividere la precarietà con uno scrittore quando entrambi competono per gli stessi lavori temporanei e mal pagati, però abitualmente il lavoratore creativo viene costretto a sgonfiare il suo curriculum, togliersi anni e veder frustrata la sua aspettativa professionale mentre continua a fare masters. Credo sia proprio qui, nell’aspettativa che i lavoratori creativi hanno su se stessi dopo una vita - giovane e adulta - dedicata alla formazione, che prende forma qualcosa di singolare della frustrazione lavorativa contemporanea. Aspettativa che oggi si canalizza, esprime e trasforma in una cultura in rete.

Come influisce questa precarietà alla creazione stessa e ai messaggi che si trasmettono dall’industria culturale? Si nota in un qualche modo o passa completamente inosservata agli occhi di chi riceve questi messaggi?
Le forme di creazione stanno cambiando con internet e questo ha molteplici letture tanto descrittive, e più antropologiche, come letture politiche e critiche. Sotto quest’ultimo punto di vista potremmo dire che anche la creazione è adesso più precaria. Vari pensatori parlano dell’immagine e l’opera precaria nelle reti sorta dalla velocità, la vulnerabilità, il remix e la caducità. Opere condannate ad essere sostituite rapidamente per qualcosa di più nuovo, più visto, che si fanno e immagazzinano senza quasi essere viste. Come conseguenza, la creazione diventa più veloce ed eccedente, appoggiata su titoli che cercano di riassumere tutto, emozionare e non pensare, dando più importanza all’accumulazione che alla quantità o la profondità.

I messaggi dell’industria culturale seguono la stessa inerzia, come se la macchina non potesse fermarsi, si appoggiano più che mai su aspetti emotivi ed intuitivi. E mi sembra che la percezione di questo tipo di creazione tende ad essere interiorizzata come parte dei tempi in cui viviamo. È facile abituarsi ad inaugurare costantemente informazioni ed opere. È quello che fanno anche i bambini quando, di fronte a dieci regali, chiedono di più senza essersi fermati a vedere cosa ci fosse nei precedenti. Ho la sensazione che abbiamo smesso di guardare con attenzione le cose. Andiamo troppo veloci e la concentrazione si posiziona come una delle grandi perdite, o delle grandi crisi.

Affermi che “il sistema culturale si rifà oggi a una moltitudine di persone creative disarticolate politicamente”. Non si suppone che le persone creative, i soggetti che lavorano con e nella cultura, hanno una speciale capacità politica, tanto nell’analisi come nella pratica? Non gli è valso per affrontare questa smobilitazione politica?
Quando il sistema culturale si sostiene sulla precarietà e la competitività, i vincoli tra uguali corrono il rischio di fratturarsi. Dopo l’università è facile trovare vecchi compagni competendo per le stesse occupazioni temporanee, premi o sovvenzioni che accrescano il loro curriculum mentre aspettano qualcosa di meglio. Il concorso costante è una forma di mantenere disattivate le persone, giacché arrivano a pensare che vincere su 50 persone e ottenere un lavoro temporaneo o non remunerato è “un premio”.

Da un lato, l’immersione in questa ricerca costante di lavoro (migliore), dall’altro la competitività, e come contesto un habitat online che favorisce nuove forme di individualismo, abbozzano uno scenario che complica il vincolo politico, più in là delle spontanee conformazioni di massa online.

È certo che le pieghe son tante e che il contesto culturale sembrerebbe idoneo per una presa di coscienza politica, giacché la materia con la quale lavoriamo sono idee, espressioni, pensieri. Ciò nonostante, questo contesto si disattiva se non c’è libertà e si sostiene sulla disuguaglianza che provoca la precarietà, acquistano dunque più importanza l'impostura e l’inerzia.

"Ho la sensazione che il capitalismo culturale spinga a vivere la cultura come intrattenimento e consumo, o come un intervallo, che interessa ma dopo scivola."

A che serve dunque la creazione culturale se non per intervenire politicamente?
Concordo con che la creazione culturale debba servire ad aiutare le persone ad essere più libere, più uguali - socialmente -, più diverse - nelle forme culturali -, e chiaramente ciò ha una lettura politica, giacché ogni creazione che favorisca la nostra libertà si appoggia su una presa di coscienza, su un posizionamento che stravolge e d’improvviso ci faccia rendere visibile la disuguaglianza e renderci visibili nella stessa.

Ciò nonostante, nella creazione culturale contemporanea tanto le forme di lavoro quanto le forme di sperimentare la cultura sono influenzate da vecchi schemi che non cedono e di nuovi non del tutto nati. Ho la sensazione che il capitalismo culturale spinga a vivere la cultura come intrattenimento e consumo, o come un intervallo, che interessa ma dopo scivola; vale a dire, come qualcosa che non sempre portiamo alla nostra vita quotidiana.

E penso che ha a che vedere con come l’eccesso di mondo visualizzato sugli schermi generi tale saturazione di notizie quasi sempre negative, che la cultura sembra soccombere a ciò che offre il mercato dando la risposta: “Non pensi, si rilassi, si diverta, qui quanto più venduto, quello che deve comprare/leggere, quello che diminuirà la sua angustia per un po’”. Gli schermi sono i nuovi gestori di gradi di perturbazione che tolleriamo, includendo i gradi di auto-inganno che siamo disposti a resistere.

Che ruolo hanno giocato i sindacati in questa distruzione dei diritti lavorativi nella sfera digitale che analizzi ne El entusiasmo?
La tradizione degli artisti e creatori non è stata quella di un collettivo sindacale. I miti che hanno rinforzato il suo individualismo e dato importanza innanzitutto alla sua opera di fronte a salario o retribuzione che la stessa merita hanno alimentato idealizzate figure per le quali parlare di soldi era di mal gusto. Nonostante, il contesto non è uniforme ed in molti modi cominciano ad abbattere tali inerzie, in questo modo diversi movimenti associativi cominciano ad articolarsi in maniera collettiva e rivendicativa con base sui lavoratori.

"La precarietà nei lavori creativi funziona come forma di addomesticamento, perché è ingannevole e tende a far pensare che sia temporanea o che sia necessaria come una fase per avere poi lavori migliori, più stabili."

Non potrebbe essere l’affiliazione sindacale un modo di articolare politicamente questa moltitudine di persone creative delle quali si vale il sistema culturale? Perché non succede questo, perché non si considera ai sindacati come strumenti per le persone che lavorano nella cultura?
Potrebbe essere, ma c’è bisogno di fiducia nelle strutture sindacali anch’esse schizzate dal fango della corruzione che tanto ha influenzato la politica di questo paese. Sembra dunque necessario ridare significato al vecchio o ideare nuovi formati che compiano la funzione di difesa dei diritti dei lavoratori.

D’altra parte, mi sembra che la precarietà nei lavori creativi funzioni come forma di addomesticamento, perché è ingannevole e tende a far pensare che sia temporanea o che sia necessaria come una fase per avere poi lavori migliori, più stabili. È certo che questa situazione, unita alla tradizione del lavoro solitario nella creazione e la attuale crisi di vincoli tra uguali derivata dalla competitività del capitalismo digitale, favorisce uno scenario di maggiore individualismo, ciò nonostante resta spazio per credere che con coscienza l’alleanza è sempre possibile.

Che vie esistono per creare una comunità che possa invertire le situazioni di precarietà che descrivi nel libro? È reversibile questa precarietà?
Questo libro è scritto come un tentativo di porre le contraddizioni e conflitti sul tema nella realtà contemporanea, non è costruito per arrivare a determinati obiettivi argomentati o conclusioni delimitate, ma per spingere il pensiero proprio e interpellare un racconto politico. Per questo credo che sia più suggerente che propositivo.

Nonostante, chi lo leggerà potrà transitare per via speculative relazionate con l’alleanza, l’immaginazione e la mutazione come “vie” sufficientemente amplie per poi immaginare formule più concrete e contestualizzate. Credo che aiutare a pensare, e non sentenziare su quanto pensato, è più coerente con la difesa della libertà che fa questo libro.

Sul se è reversibile o meno, non si tratterebbe tanto di tornare allo stato precedente, ma di trasformarlo ed essere capaci di creare altre, migliori, condizioni. Liberare l’immaginazione da tanta zavorra precaria è una sfida perché i cambi di cui abbiamo bisogno sono anche strutturali.

"La vanità è il grande motore delle reti e di ciò si valgono le industrie digitali per le quali “l’io” è il prodotto."

Fino a che punto la vocazione e l’ego funzionano come un inganno in queste professioni creative dell’industria culturale, come un alibi per resistere a condizioni inaccettabili in qualsiasi altro lavoro? Lo accetti perché è la “tua vocazione”, tua canzone, tuo corto, tuo libro, tuo articolo e perché c’è il tuo nome.
La vocazione è un tema tanto cruciale quanto intimo quando ciò che è in gioco è il “nostro nome”. Come se spogliati dal materiale ci giocassimo tutto per quel nome che si trasforma in marca, in copertina d’articoli vuoti di senso ma che compiono le norme, in epigrafe d’un curriculum pieno di certificati con intestazione, in interruttore di registri Google che ti definiscono, in sequenze di numeri di seguaci (followers) che si accumulano. Non c’è maggiore motivazione per un umano che se stesso, la vanità è il grande motore delle reti e di ciò si valgono le industrie digitali per le quali “l’io” è il prodotto.

Esiste un entusiasmo che possa finire non facendo il gioco del sistema? Se esiste, dove si trova?
La vulnerabilità dell’entusiasmo mette radici nel convertire gli entusiasti - subordinati - in agenti partecipi della propria subordinazione. Lavorare gratis e dire grazie è qualcosa che possiamo trovare in chi ha paura o vive situazioni di disuguaglianza. Nel libro sviluppo quest’idea in relazione a poveri e donne che si inseriscono nel mercato del lavoro con una maggiore aspettativa volendo dimostrare che possono farlo e che lo faranno con più motivazione di tutti, scontrandosi quasi sempre con la sottomissione o l’abbandono come qualcosa d’alimentato e prevedibile. La disuguaglianza è la fonte di questa oppressione derivata dall’abuso di potere appoggiato su questo entusiasmo indotto.

Di fronte a questo entusiasmo che sorge come strategia per ottenere un lavoro o un riconoscimento e di cui si beneficia un sistema che vuole di più per meno, esistono forme d’entusiasmo sincero relazionate con la passione creativa quando si vive in libertà e con maggiori gradi d’uguaglianza. Mi sembra che se quest’entusiasmo abitasse un luogo sarebbe questo, quello della libertà.

Il lavoro creativo nell’era digitale appare incorporeo, poco fisico, ma influisce direttamente sui corpi delle persone che lo realizzano. Quali diresti sono i principali incidenti lavorativi che soffrono, in senso metaforico ed anche in senso letterale?
Credo che gli incidenti e le ferite dei lavoratori digitali hanno specialmente a che vedere con l’ansia. Quella sensazione di non riuscire a far tutto quanto si vorrebbe, accedere a quanto scaricato, vedere ciò che è disponibile, rispondere alle richieste e domande umane e della macchina, vivere-lavorando…

Non c’è da sorprendersi se l’uso d’ansiolitici e medicine che permettono un “entusiasmo artificiale” sia aumentato tanto negli ultimi tempi. È un tema che mi interessa e sul quale direttamente e trasversalmente transita la protagonista de El entusiasmo durante il libro.

In Clavicula, Marta Sanz scrive sul dolore fisico di una lavoratrice culturale e Belén Gopegui ha affrontato gli aspetti lavorativi di un gigante tecnologico multinazionale di oggi come Google nel suo ultimo romanzo. Il tuo saggio tratta il tema delle condizioni di lavoro. Si è rotta una specie di censura o tabù sulla questione materiale di chi crea? A cosa credi obbedisca questa rottura?
Le condizioni materiali di lavoro culturale sono cambiate fortemente con internet ed al condividerle non solo parliamo di chi crea come professionista della cultura, ma parliamo di aspetti quotidiani della vita di tutte le persone connesse che oggi vivono e creano in uno schermo.

Suppongo che eliminare la gerarchia della creazione sia qualcosa che ci interpella tutti, anche a diversi livelli, generi un interesse maggiore perché parlando di noi parliamo di molte persone. E parliamo di persone che “hanno un corpo”, che si sporca, ingrassa, si diverte, fa male e si stanca… Dividere dal lavoro intellettuale questa realtà ha supposto una direzione anche politica, in quanto i corpi e la loro cura erano “cosa da donne”.

Su questa possibile censura che suggerisci, forse meriterebbe una riflessione più lenta, ma io noto che i poveri che lavoravano non avevano tempo per scrivere sul come lavoravano. Oggi le persone povere e precarie creano anche e, non appena hanno coscienza politica, parlare delle proprie condizioni di lavoro è qualcosa di fluido.

D’altra parte, finalmente cominciano a leggere ed ascoltare le donne. E questa è una delle grandi censure, fino a ben poco fa le donne non potevamo essere creatrici, o le nostre creazioni venivano precedentemente sminuite o rivestite in pubblicazioni che ci volevano solo insegnando cucina, sognando l’amore, come amanti o spose e a prendere cura degli altri, e non di se stesse.

"Laddove i lavori di contesto culturale e creativo sono più precari, i lavori continuano ad essere femminilizzati."

Non sembra un caso, di fatto, che le tre siate donne. Influisce in maniera diversa la precarietà del lavoro creativo a uomini e donne? C’è anche una risposta diversa ad essa da parte di uni ed altre?
Sento una fratellanza forte con le donne scrittrici, specialmente con donne come Marta e Belén, con le quali sono in sintonia su tante forme di vedere il mondo. Per quanto riguarda le tue domande, penso che influisca in maniera diversa, perché le donne continuano ancora - non per volontà propria - legate alle eredità dei corpi e la loro cura, precedute da un’immagine e un corpo sul quale tutti si riservano il lusso di opinare, e mancanza di storie che vengano scritte da noi, libere dal patriarcato.
Lí dove i lavori di contesto culturale e creativi sono più precari, i lavori continuano ad essere femminilizzati ed anche la risposta è diversa, giacché mentre agli uomini li si spinge a cercare qualcosa di meglio, l’aspettativa posta in molte donne è spingere alla rinuncia per la famiglia, per una giornata più flessibile o più corta, con uno stipendio minore, che le permetta prendersi cura dei figli, i malati o gli anziani. Questa aspettativa che silenziosamente attraversa la nostra vita quotidiana alimentando la rassegnazione e negando la capacità di reazione.

Vincere questa tendenza asimmetrica fa sì che il plus d’entusiasmo delle donne nei lavori creativi sia se possibile maggiore ed anche la carica sulle loro spalle, perché ci si aspetta che si “sottomettano”. Come può non farci male il corpo? Come non rivendicare che gli uomini che leggono e pensano hanno anch’essi un corpo - e mani per prendersi cura - come noi che leggiamo e pensiamo?

Antes que nada, felicitarle por su articulo, cuyo nivel discursivo está muy por encima de la discusión corriente.
Considero necesario expulsar de una vez la palabras arte y cultura de las discusiones. Aquí usted ha descrito situaciones creativas y laborales, de forma tan clara y honesta, que no pude evitar observar como esas muletilla se entrometían por todos lados sin utilidad alguna. En su manifiesto primario, los creadores de la danza butoh se manifestaron en contra de titulos como "erudición" o "virtuosismo", pues consideraban que el alma podía comunicarse con el cuerpo, sin necesidad de ningún título nobiliario.

https://www.youtube.com/playlist?list=PLcyGHNRNcH4K8Whvc9N-rV3yF1UzDi-jR